Stavo ripensando ieri ai tagli indiscriminati alla macchina pubblica americana e sono convinto che ci sia qualcosa sotto, qualcosa che potrebbe non essere quello che pensiamo. Dal punto di vista culturalmente libertariano di Musk la macchina di governo è un puro spreco di soldi, nient’altro che questo. Siccome ha fatto altro tutto la vita Musk non ha idea di cosa faccia davvero una amministrazione pubblica e per lui potrebbero anche andare tutti a casa subito. Purtroppo essendo l’uomo più ricco del mondo non ritiene di dover più imparare nulla dalla vita e quindi licenzia a pioggia, o fa licenziare dai suoi “soldati bambino” smanettoni. In questo senso è quello che avrebbe fattoo Milton Friedman se avesse avuto la mannaia, è simile alle azioni di Milei in Argentina , o a quello che sogna Balaji Sivrinasan nel suo “The Netwok State”. Musk li licenzierebbe tutti, subito, ripartendo da zero con il minimo necessario per fare le cose minime che uno stato deve fare. Ayn Rand dall’oltretomba gode. Ma questo non dovrebbe essere il punto di vista di Trump. Trump è il presidente degli Stati Uniti d’America, quei dipendenti pubblici sono il suo esercito, che risponderà ai suoi ordini. Quale generale vuole avere meno soldati sul campo? Chi vuole avere meno efficienza, meno ruoli, meno persone sotto di sé? Significherebbe una riduzione del proprio status. Se c’è un fattore ideologico, un presunto pregiudizio a sinistra della macchina pubblica, esemplificato dalle donazione ai partiti effettuati a Washington, questo significherebbe licenziare in modo mirato e ideologico, non indiscriminato come sta avvenendo, non a pioggia. In genere i governi autoritari – quale si teme quello di Trump stia diventando – aumentano la potenza e la rilevanza dell’apparato statale. Perché abbattere la macchina pubblica, allora? Questa roba non ha senso, a meno che l’obiettivo vero non sia un un altro, ed è quello che probabilmente ha promesso Musk a Trump. La ragione per cui va e chiede accesso ai dati non è controllare il governo, ma automatizzarlo. Musk ha probabilmente detto che lui riesce a sostituire la macchina pubblica americana con una AI altissimamente performante. Per questo al DOGE ci sta andando con degli smanettoni. Per questo copia i dati governativi. Per questo licenzia tutti: vuole dimostrare che la sua AI sarà più efficiente dei dipendenti licenziati, e ancora più obbediente a Trump della inefficiente macchina burocratica umana. Per questo l’incarico è a tempo. Per questo stanno rilasciando Grok 3. Musk vuole dimostrare di poter automatizzare gli impiegati pubblici del mondo, un esperimento mai tentato prima, e che gli darebbe un vantaggio rispetto alla odiatissima concorrenza di Sam Altman e OpenAI, che a questi dati nemmeno possono sognare di accedere. Per questo Trump lo lascia fare felice, gli sono stati promessi capra e cavoli, macchina efficiente, potente e automatica. Il tempo ci darà se questa ipotesi era corretta o meno. Al momento è l’unica che nella mia testa possa avere un qualche senso rispetto a quello che sta accadendo, che altrimenti è francamente assurdo. Musk non vuole un governo fascista, non vuole proprio nessun governo, e questa è l’occasione della sua vita per dimostrare che il governo non serve affatto.
Foto generata da Grok, perché che diavolo, è bello usare le loro cose contro di loro.
Il titolo di questo post può sembrare una provocazione. Si può davvero paragonare l’uomo che ha inventato il settore dell’auto elettrica, introdotto i razzi riutilizzabili nella corsa allo spazio, lanciato una serie di interfacce neurali che rasentano la magia come quelle di Neuralink alla tipa che si è fatta un sacco di selfie e ha sposato Fedez? Secondo noi in realtà sì, per ragioni che non sono ovvie a prima vista.
Innanzitutto sarebbe molto riduttivo parlare di Chiara Ferragni in questo modo, lei è stata infinitamente di più di una vanesia che ci inondava di propri selfie. I selfie di Chiara Ferragni erano solo un mezzo per realizzare il suo più grande prodotto, ovvero il mito di se stessa, della sua vita stupenda da desiderare e imitare. L’imprenditrice Chiara Ferragni ha venduto questo prodotto su scala industriale: messaggi promozionali, prodotti con marchio proprio, pubblicità tradizionali. Chiara Ferragni è stata una geniale imprenditrice della propria immagine pubblica.
Elon Musk sulla carta produce auto, razzi, connettività, cose tangibili. Ma le aziende di Elon Musk, spesso messe insieme a Google, Apple, Facebook e Amazon o Microsoft in realtà se ne distaccano in modo sostanziale.
Le quotazioni di borsa di Apple dipendono da quanti dispositivi vende. Se le vendite sono superiori, o inferiori alle aspettative, il titolo viene premiato o punito. Facebook e Google fanno qualcosa di simile con la pubblicità online. Microsoft deve vendere licenze software e servizi cloud, Amazon deve proprio vendere prodotti fisici, spedirli e farli arrivare a casa, oppure fornire i propri servizi cloud (un business incredibilmente redditizio). Il legame con questi fondamentali di mercato è sempre stato chiaro.
Nel caso delle aziende di Elon Musk la scommessa dei mercati è leggermente diversa. Nel 2023, l’anno migliore per Tesla, il produttore di auto elettriche ha venduto 1,8 milioni di autoveicoli. Il gruppo General Motors 6,2 milioni di autoveicoli. Sapete quanto capitalizza in borsa General Motors attualmente? 48 miliardi di dollari. Tesla invece capitalizza 1112 miliardi di dollari. Tesla capitalizza 23 volte General Motors, pur vendendo un quarto dei suoi veicoli. Volendo dividere la capitalizzazione di borsa per i veicoli venduti, potremmo dire che la borsa valuta ogni Tesla venduta quanto 100 veicoli General Motors venduti.
La borsa azionaria non è folle: semplicemente ritiene le prospettive di crescita, la visione di business di Tesla, la capacità futura di generare soldi con le auto che si pilotano da sole, i robotaxi, l’intelligenza artificiale etc. come 100 volte più importante di quella di un costruttore di auto tradizionale. Dietro questo premio, c’è la capacità di Elon Musk di vendere il Futuro, di convincere gli investitori che la sua visione è quella giusta per il futuro, che investendo con lui si faranno cose incredibili, dal acchiappare razzi grandi come un palazzo al volo con delle bacchette di metallo fino a pilotare fluidamente un cursore sullo schermo con il pensiero. Tutti questi sarebbero stati però solo numeri di circo se non ci fosse dietro la capacità di convincere dipendenti, investitori, il mercato della propria visione del futuro. Allo stesso modo Chiara Ferragni aveva convinto milioni di follower i più grandi marchi del settore della moda che quello che faceva lei era la cosa cool che tutti avrebbero voluto essere e avere. Non era il suo essere una bella ragazza, il suo essere sposata con Fedez, i loro figli stupendi, il loro attico, la sua borsetta, il matrimonio in Sicilia…erano tutte queste inestricabilmente legate insieme.
Elon Musk ha 217 milioni di followers su Twitter/X. Chiara Ferragni ne aveva anche lei milioni. Ma non sono due influencer per via dei follower che hanno, al contrario: hanno così tanti follower perché sono influencer, possiedono l’innata capacità di influenzare le persone intorno a loro.
Musk ogni tanto dice “questo è il futuro” e lo persegue con cieca determinazione e convince il mondo intero a seguirlo. Da inguardabili emuli elettrici e moderni della Fiat Multipla come il Cybertruck, fino alla fregola di andare su un pianeta, Marte, ancora sfortunatamente privo di atmosfera: magari ipotizza di fare come il Gerarca Barbagli di “Fascisti su Marte”, e riuscire a respirare con la sola forza della propria maschia volontà. Musk ha capacità di influenzare persone, che lo seguono, e lo rendono ricco oltre ogni immaginazione. Ma la capacità di influenzare precede i soldi, come precede i follower, precede persino il successo aziendale, perché diventa capacità di ispirare i tuoi dipendenti, quelli che realmente porteranno a casa il risultato. E di convincere gli investitori, che sono poi quelli che ti daranno il capitale.
Ultimamente Musk – come tutti sapete – si è lanciato in una crociata ideologica e politica contro il mondo cosiddetto woke, dove lui con questa parola intende più o meno tutto quello a sinistra del MAGA di Trump e dell’AfD. Musk sembra essersi tuffato anima e corpo in questa missione. Sembra assurdo credere che fino all’attentato subito da Trump a Butler nel Luglio 2024 Musk non aveva ancora nemmeno fatto ufficialmente endorsement. Sono passati a malapena sei mesi, adesso i due sembrano inscindibili. In questa fase storica, Elon Musk sembra diventato pericolosissimo, e in molti si chiedono se e come sia possibile sconfiggerlo politicamente.
Qui ci sono due strade. Se pensiamo che l’uomo più ricco del mondo, l’uomo con più tecnologia del mondo, riesce a controllare direttamente l’uomo più potente del mondo, l’inquilino della Casa Bianca noi che possibilità abbiamo? Nessuna, noi abbiamo già perso.
Se invece consideriamo come la capacità di influenzare, di vendere il prodotto futuro sia centrale per Elon Musk abbiamo ancora una speranza contro di lui, perché ci siamo liberati in qualche modo di Chiara Ferragni, o almeno della sua immagine pubblica.
L’influencer ha un fondo di narcisismo patologico. Ama vedere il suo potere specchiarsi nella capacità di spingere gli altri a fare quello che vuole, ha un bisogno patologico di essere amato e idolatrato. Quindi ama i riflettori, ama talmente tanto i riflettori da volerli saturare, da voler essere ovunque.
Come sa chiunque abbia mai visto un palco da vicino, i riflettori non si limitano a illuminare, sono talmente forti da bruciare chi si trattiene troppo a lungo sotto di loro. L’influencer tende a saturare ogni spazio disponibile, a lanciarsi in interviste fiume da 8 ore come ha fatto Musk da Lex Friedman, l’influencer si trova sempre più in balia del suo narcisismo. Quando è così, l’influencer è in una fase terminale della propria esposizione pubblica, è come la falena che si avvicina alla candela, e non sa che ne verrà bruciata e consumata.
L’influencer è ovunque, finché di colpo non è da nessuna parte. Tutti lo seguono, finché nessuno più lo fa. L’onnipresenza è la fase finale del ciclo di vita dell’influencer, perché perde lo strumento principale della sua attività, non l’attenzione o la ribalta pubblica (quella semmai è uno strumento), ma la sua capacità di influenzare. La perde proprio perché si espone troppo, perché si avvicina troppo alla fiammella.
Musk sembra onnipotente. Ma Musk è l’uomo più ricco del mondo essenzialmente per le azioni di Tesla. Tesla è sempre stata la sua cassaforte. Tesla perde quote di mercato per due motivi. Il primo è la presenza di produttori cinesi sempre più aggressivi, con tecnologia propria e di primo livello, tipo Byd. Il secondo – che inizia da pochissimo a mostrare i suoi effetti – è il fatto che i consumatori progressisti (una buona fetta del pubblico delle auto elettriche) ha iniziato a snobbare Tesla. Le vendite in Europa sono letteralmente precipitate di recente. Questo non sarebbe un problema, se non fosse per le quotazioni azionarie del titolo Tesla, quotazioni da cui ha tratto la sua spropositata ricchezza. Se cade Tesla, la sua ricchezza sarebbe sempre colossale, ma non più la maggiore del mondo.
Andiamo al livello politico. Musk sembra potentissimo. Ma il credito che ha comprato con Donald Trump non è una cambiale in bianco. Trump ha 78 anni, e ragionevolmente non potrà correre per un altro mandato. Musk non ha nemmeno un ministero formale, ha solo un incarico a tempo. Se Trump decidesse di averne abbastanza di lui, Musk cosa può fare? A chi può rivolgersi? Musk in questo caso si troverebbe con Twitter/X in perdita cronica, avrebbe sempre SpaceX, Starlink, Neuralink e altra aziende non quotate in borsa. Resterebbe un uomo molto ricco e potente, ma senza questa capacità sovraumana di fare danni. Anche la Ferragni è ancora una donna molto facoltosa e in vista, pur dopo aver perso il suo potere sovraumano di influenzare con la propria immagine .
Musk potrebbe presto smettere di venderci il futuro, o noi potremmo decidere presto di comprarlo altrove. E’ lodevole cercare di raggiungere pianeti lontani, ma se cerchi di compiere questa impresa mentre metà del pianeta ti dice “ecco, vattene al diavolo su Marte e non tornare più”, probabilmente stai sbagliando qualcosa. Non sappiamo dove lo porterà il viaggio che ha intrapreso nell’Ottobre 2022, quando acquistò Twitter. Per ora sembra un viaggio verso una destinazione molto lontana e ancora senza ritorno.
Per uno scherzo del destino, l’organizzazione governativa affidata a Elon Musk, D.O.G.E., ha un nome che suona molto simile a quello del capo dello stato dell’antica Repubblica di Venezia. Se però nella Repubblica Marinara il Doge si muoveva a bordo di una elegantissima nave chiamata “Bucintoro”, il D.O.G.E. di Elon Musk si muoverebbe piuttosto a bordo di una nave dei pirati. E non i pirati buoni e idealizzati tipo Jack Sparrow, ma pirati veri e terrificanti tipo quelli del ciclo di Tortuga di Valerio Evangelisti. Le modalità con cui Elon Musk si è avvicinato al suo incarico di “tagliatore di costi” della macchina pubblica americana nel nuovo dipartimento D.O.G.E. (Department Of Govern Efficiency) offre una prospettiva interessante sul suo modo di ragionare e sulle sue finalità politiche.
L’archetipo del D.O.G.E. è stata l’acquisizione di Twitter nel 2022. Elon Musk per la maggior parte della sua vita professionale ha sempre fondato aziende da zero (SpaceX, Neuralink, Starlink, xAI), oppure vi è entrato in una fase della vita aziendale talmente embrionale che è come se le avesse fondate (vedi Tesla, per la quale non a caso ha ottenuto in tribunale il diritto di definirsi “cofondatore”). Musk non ha mai avuto bisogno di ristrutturare completamente un’azienda, ha sempre lasciato crescere le proprie imprese organicamente nella direzione che voleva lui. Twitter è stato il primo caso in cui Musk ha comprato una azienda matura, con molti anni di storia alle spalle, e molti dipendenti, a suo giudizio fin troppi. Twitter aveva noti problemi di redditività. Musk – dopo averla comprata quasi controvoglia – è entrato poi trionfalmente nella sede principale dell’azienda a San Francisco con un lavandino in mano, per dire “let that sink in”, un gioco di parole con sink, “lavandino” in inglese, espressione grosso modo traducibile con “lasciamoci del tempo per digerire la cosa”.
Chi non ha avuto tempo per digerire la cosa sono stati i poveri dipendenti di Twitter. L’ottanta per cento di loro è stato licenziato dall’oggi al domani, indipendentemente dal grado di dedizione (o per meglio dire, prostrazione) agli obiettivi aziendali mostrato. Non a caso molti di loro hanno paragonato la situazione con il nuovo capo e il suo entourage a quella dei “Mangiamorte” di Voldemort nella famosa serie di Harry Potter.
Sia chiaro, Twitter, Inc. (ovvero Incorporated) era una azienda privata, Musk l’ha acquistata contraendo un enorme debito, quindi aveva ogni diritto di ristrutturarla come meglio credeva. Le conseguenze sul dibattito pubblico della privatizzazione totale delle piattaforme social sono più responsabilità politica di governi e parlamenti che colpa diretta di Musk (o Zuckerberg, per quel che cambia). Per anni la questione dei social media non è stata affrontata in maniera organica dai legislatori, lasciando le piattaforme dove si esprime la libertà costituzionale d’opinione e si forma il dibattito pubblico di intere nazioni in balia di autentici Robber Barons, “tutto quello che avviene qui dietro è mio“. Il paragone corretto è un pub in cui non solo i tavoli e le attrezzature, ma anche tutto quello che viene detto lì dentro dagli avventori finisce per appartenere al proprietario del locale. Non si contestano quindi i licenziamenti in sé, che restano purtroppo prerogativa di ogni imprenditore, ma le modalità – francamente disgustose – con cui questi sono avvenuti.
Dall’offesa gratuita e vigliacca a dei dipendenti disabili, fino allo sviluppatore dell’app Android accusato in pubblico di aver prodotto una app lenta. Lo sviluppatore si era visto accusare di aver lavorato male, producendo una app lenta “che faceva migliaia di RPC al minuto” (segnatevi il termine RPC, ci torneremo tra un minuto). Lo sviluppatore ha provato a difendersi sul social (in fondo era il suo lavoro a essere sputtanato di fronte a centinaia di milioni di persone). Qualcuno aveva fatto notare “dovresti chiarire queste cose in privato con il tuo capo”, al che lui ha correttamente risposto “il mio capo le avrebbe potute chiedere in privato sui nostri canali aziendali tipo slack” per poi finire licenziato in pochi minuti tra le ghignate della combriccola di Musk su Twitter.
A prescindere dal caso che umanamente e professionalmente si commenta da solo, è estremamente interessante il fatto che Musk all’inizio dell’acquisizione di Twitter sembrasse ossessionato dalla “lentezza” di Twitter. Musk sembrava dover per forza individuare un problema tecnico da risolvere. Ovviamente sistemi della dimensione di Twitter presentano sfide tecnologiche non indifferenti. Milioni di utenti in contemporanea, che commentano, rispondono, ricondividono, il cui feed va personalizzato ogni volta, il tutto per di più in tempo reale. Questi problemi però erano ben lontani dal rendere l’esperienza ingestibile, e soprattutto sono risolvibili scalando e ottimizzando le proprie infrastrutture. Tutto può essere migliorato, ma se Twitter aveva problemi di cassa non ero certo per via dell’app lenta. Musk invece sembrava ossessionato da questa performance, “adesso dovrebbe essere più veloce”, miglioramento che nessuno degli utenti sembrava avere particolarmente a cuore. In tutto questo Musk usa questo termine “RPC”, letteralmente “Remote Procedure Call”, un termine che gli informatici hanno più o meno smesso di usare da circa 20 anni. Probabilmente l’ultima volta che ho sentito questo termine è stato il 2003, che guarda caso è più o meno quando Elon Musk ha smesso di occuparsi attivamente di software (ha venduto PayPal nel 2002). Però Musk sembrava avere molto a cuore questa sua qualifica di CTO, Chief Technical Officer, anzi, è l’unico titolo in Twitter che ha conversato dopo aver nominato la nuova CEO Linda Yaccarino. Musk non esitava a parlare una sorta di linguaggio pseudotecnico che sembrava avere senso solo in superficie, per chi non aveva davvero contezza della materia, come notava anche Rod Hilton.
Così l’utente Rod Hilton commentava le sue impressioni su Musk verso la fine del 2022.
Certo, tenere l’app in funzione licenziando a pioggia 4 dipendenti su 5 è una sfida notevole, non lo nega nessuno, ma è anche una sfida in cui ti sei voluto infilare tu, una sfida manageriale e finanziaria, quando non ideologica. Ma di certo nessuno ti obbliga a volere sembrare competente abbastanza da gestire una infrastruttura complessa come quella di Twitter, specie dopo aver fatto tutt’altro di mestiere per oltre vent’anni. Conoscere queste tematiche e restare aggiornati è un lavoro a tempo pieno, una cosa che già un semplice manager di un reparto di Software Development fa fatica a fare, figuriamoci il CEO di Tesla e SpaceX. Questo non significa nemmeno accusare Elon Musk di non “essere capace”, sicuramente lo sarebbe, è una pura questione di tempo (e di umiltà), non è umanamente possibile restare al passo in così tanti campi così sfidanti, innovativi e mutevoli. Ma lui a questo aspetto “tecnologico” sembrava tenerci enormemente, perché era il suo grimaldello, il primo della sua cassetta degli attrezzi per scassinare aziende e istituzioni esistenti.
La nuova bio di Musk su X.
Lo sta usando ancora adesso. Anche adesso nel suo nuovo ruolo politico, si vuole vendere come “White House Tech Support”, come si firma adesso su X, il nuovo nome di Twitter. Ci tiene ad apparire in una veste tecnica. Si è recato nelle agenzie federali con degli smanettoni di 19 anni e ha chiesto “l’accesso ai database”. Occupandomi di architetture software da un po’, non ho idea di cosa si possa capire nel 2025 a partire dalla tabella di un database, proprio non lo so. Spesso sono tabelle tecniche, metadati, complesse strutture di database NOSQL, oggetti JSON. A volte è difficile capire cosa c’è scritto su un database di una applicazione che hai scritto tu, figuriamoci su una che non hai mai visto prima. Poi non si capisce perché sia interessato solo ai database, e non alle mille fonti di contenuti di cui in genere una grande organizzazione dispone e su cui lavora, da Microsoft Sharepoint agli altri Enterprise Content Management (ECM). Però l’accesso deve essere “read-only”, come si sono affrettati a spiegare, qualunque cosa significhi in questo caso. Anche se usasse qualche presunta “magia” legata all’Artificial Intelligence, risulterebbe praticamente impossibile capire qualcosa di come funziona una organizzazione complessa come una agenzia federale semplicemente “accedendo ai suoi database”. Sono dati che se non hai qualcuno che te li spiega per filo e per segno PER GIORNI, non hai nessuna chance nemmeno di iniziare a capire . Eppure i 19enni di Elon, gente che probabilmente non ha mai visto i sistemi una agenzia governativa così grande, devono capire tutto al volo e giudicare in quindici minuti se il tuo lavoro è degno o meno. Chiaramente si sta parlando d’altro: ma di cosa di preciso?
Se io parlo all’uomo della strada di “accesso al database”, si accenderà in lui una lampadina tipo film del 1986 in cui “accesso al database” da parte di un hacker su una tastiera di un monitor a fosfori verdi voleva dire “accesso completo, totale”. “Accesso al database” ti permette di dare alle persone non specializzate l’idea che tu abbia compreso tutto di quella organizzazione, che non abbia più segreti per te. “Accesso al database” è una parolina magica che nei non addetti ai lavori accende la visione di poteri informatici quasi sovrannaturali. Il senso di rivendersi “l’accesso al database” è “spezzare le reni” a una organizzazione, prostrarla, essere in grado di riplasmarla secondo una motivazione solo apparentemente tecnica, “il database ha detto che…”. Il Database ha detto che siete corrotti, inefficienti, che sprecate denaro pubblico. Chi di voi, comuni mortali, oserebbe contraddire il potente database? Ma il database, se non correttamente interpretato, non dice proprio un bel nulla.
Questo è il primo strumento utilizzato. Il secondo appartiene all’armamentario di ristrutturazione aziendale già sviluppato su Twitter ed è “lo scandalo morale”, la “corruzione oltre ogni immaginazione”. Questo aspetto merita un approfondimento . Musk ha continuamente lasciato intendere che dentro Twitter fossero accaduti “scandali senza nome”, “corruzioni gravissime”, “scene del crimine senza precedenti”. Famoso è il suo tweet “Twitter è sia un’azienda di social media che una scena del crimine“.
L’iconico tweet di Musk sui “crimini” di Twitter.
Musk aveva denunciato come scandalosi alcuni casi risalenti alla vecchia gestione di shadow banning, vuol dire “sparizione” di alcuni contenuti e/o parole chiave. Inoltre aveva messo alla berlina contatti diretti con l’FBI e altre agenzie governative su alcuni casi specifici. Questo “incredibile scandalo” sarebbe poi diventato i Twitter Files, dati in pasto a giornalisti non esattamente neutrali come Matt Taibbi e Bari Weiss. Senza voler difendere assolutamente le ingerenze governative su un social media, ingerenze che in un mondo ideale andrebbero sempre condannate, mi stupisce che queste ingerenze stupiscano, mi sembrano anzi molto inferiori a quelli che mi sarei aspettato per uno strumento così centrale nella formazione dell’opinione pubblica come Twitter. Qualsiasi cosa possano aver fatto i Twitter Files, o qualsiasi parola d’ordine relativa al laptop di Hunter Biden possano aver censurato, mi sembra comunque di ordini di grandezza meno grave di un attuale ministro del governo Trump che ha finanziato la sua campagna elettorale con centinaia di milioni di dollari mentre gestiva fisicamente gli algoritmi di visibilità di un social media tanto importante in piena campagna elettorale. Se i Twitter Files erano gravi, i Musk Files del futuro, che qualcuno un giorno raccoglierà, cosa saranno?
Il copione viene riutilizzato anche per USAID, “United States Agency for International Development”, l’agenzia americana che si occupa di aiuti internazionali. Laconici screeshots di non si capisce bene cosa vengono usati per denunciare “una corruzione senza precedenti”. Questa corruzione dovrebbe giustificare immediatamente misure drastiche di chiusura istantanea dell’agenzia. Fino a qualche giorno fa il sito usaid.gov dichiarava che tutti i dipendenti dell’agenzia, molti all’estero in regioni remotissime del globo per ragioni di servizio, avevano due settimane per mettersi in contatto con la sede centrale prima del licenziamento, grazie per il vostro servizio. Adesso il sito restituisce una pagina bianca, o forse è solo il vuoto dello squallore cosmico con cui Elon Musk è abituato a trattare i lavoratori che non ha assunto lui direttamente.
Qui c’è una differenza centrale con il caso Twitter. Nel caso Twitter, la denuncia di “corruzione senza precedenti” era funzionale a riplasmare l’azienda secondo i suoi desideri, in direzione ultraconservatrice. La corruzione senza precedenti era una excusatio non petita per portare Twitter (adesso ridenominato X) a sostenere Trump, l’AFD, la Lega e l’ultradestra mondiale. Però in teoria qui Musk avrebbe potuto farlo anche senza denunciare nessuna corruzione. Musk, avendo pagato 44 miliardi di dollari Twitter, poteva farne quello che voleva (non sono d’accordo con il principio, ma nei fatti è così). Musk avrebbe potuto trovare il peggio o il meglio dentro Twitter, non è importante, comunque alla fine la decisione è sua.
Ben diverso è il discorso nei presunti casi di corruzione dell’USAID. Se Musk trova casi di corruzione, Musk non ha nessun obbligo di chiudere, ha l’obbligo di denunciare. Se anche trovasse sul suo beneamato database una colonna di un tabella con un valore boolean “EMBAZZLEMENT” (corruzione) Vero/Falso non può lanciare sui social accuse di corruzione e malversazione (reati penali) senza che un magistrato intervenga. In ogni caso la corruzione non giustifica in nessun modo la chiusura di un istituto pubblico. Ci saranno stati anche casi di corruzione dentro il Pentagono, i colpevoli saranno stati puniti senza che nessuno per questo abbia proposto di sciogliere le intere Forze Armate Americane. Una agenzia può essere sciolta per decisione politica – rispettando le leggi – anche quando funziona in modo perfettamente onesto e trasparente.
Scrivo questo a prescindere da quanto io trovi personalmente osceno lo spettacolo di due miliardari al governo che come primo atto di governo cancellano di colpo una intera agenzia umanitaria, due miliardari che stanno lì a darsi il cinque e a “lollare” tra loro mentre potrebbero veramente esserci bambini in Africa che non riceveranno il vaccino antipolio perché chissà che diavolo ha visto il 19enne smanettone sgherro di Musk sul “database”. Come al solito Musk non sembra essere molto a proprio agio con gli ultimi della terra, per questo sono particolarmente surreali le storie strappalacrime su di lui generate dall’AI e recentemente comparse in rete.
Mentre analizziamo la componente tecnologica dell’approccio di Musk alle ristrutturazioni (“Sono il servizio IT, ho le chiavi del server, accedo ai database, il mio tecnosapere mi rende superiore a voi”) e la chiave morale (ventilare scandali di cui è informato solo lui ma non la magistratura), ci si può chiedere, qual è il senso di questo esercizio? Perché “tritare” così USAID?
Ritorniamo a Twitter. Adesso si chiama X: è stato abbandonato un nome iconico, che tutti conoscevano, diventato sinonimo di social media per una lettera dell’alfabeto impronunciabile in molte lingue, già questo fa capire il livello puramente ideologico delle scelte vendute come “di business”. X adesso ha un quinto dei dipendenti che aveva prima, ma ancora non produce utili, anche perché molti inserzionisti sono comprensibilmente scappati. Pare che forse adesso stiano tornando, vista il nuovo vento politico, ma non ancora in numero sufficiente a far registrare profitti.
Nel frattempo Musk e Yaccarino hanno denunciato gli inserzionisti, perché pare che solo Elon Musk possa fare quello che vuole con i suo soldi e le sue aziende, mentre gli altri invece hanno un obbligo morale e giuridico di fargli fare business. Vale così anche per i fondi pubblici, sono moralmente riprovevoli solo quelli ricevuti dalle altre aziende, quelli ricevuti dalle aziende di Musk invece sono sacrosanti.
Dopo tutti questi licenziamenti in Twitter/X siamo ancora al punto di partenza, non eravamo profittevoli nel 2022, e non siamo profittevoli nel 2025. Tuttavia X o Twitter ha assolto il suo obiettivo principale, ovvero far credere a Trump di essere stato determinante nella sua rielezione. Qui non siamo in grado di dire quanto la nuova direzione di X abbia davvero inciso, forse è stata la mosca cocchiera, forse ha fatto la differenza. Vige un discorso simile alle televisioni di Berlusconi in Italia negli anni passati (Berlusconi è sempre illuminante quando si parla di Trump, come scrive persino Francis Fukuyama).
Berlusconi ha vinto le elezioni con le televisioni, e le ha perse con le televisioni. Probabilmente Trump avrebbe vinto comunque contro una avversaria oggettivamente debole come Kamala Harris (debole perché lanciata all’ultimo minuto, senza una investitura popolare nelle primarie etc). Però Musk è riuscito comunque a guadagnarsi un posto alla corte del Re. La cosa divertente è che fino a prima dell’attentato di luglio alla vita di Trump, Musk non aveva ancora deciso di supportarlo ufficialmente. Fino a luglio, ovvero sei mesi fa, il binomio Musk Trump che adesso pare inscindibile nemmeno esisteva.
Se le benedette RPC “Remote Procedure Call” di Twitter, pardon X, adesso scorrono veloci come saette, eppure X non fa ancora soldi, cosa farà invece il D.O.G.E. per diminuire la spesa pubblica? Il D.O.G.E. sta scempiando l’agenzia umanitaria americana probabilmente solo per farne un esempio. Musk vuole mostrare agli altri enti federali che devono chinare il capo e mostrare obbedienza assoluta. Non può procedere con questa violenta rozzezza con il Pentagono o l’FBI (anche se all’FBI molte teste coinvolte nelle indagini su Trump sono rotolate), perché gli americani medi se ne accorgerebbero, invece se manca una tenda antimalarica in Africa, non ci sono mica problemi. Tanto ormai la gente non vuole mica stare meglio, vuole solo vedere soffrire chi sta peggio. Intanto giù brutali contro le minoranze, nel nome della crociata anti-DEI, Diversity, Equality and Inclusion, borse di studio tagliate e carriere bruciate, che non c’è tempo da perdere.
Inoltre, passate queste settimane “Shock and Awe”, sicuramente i giudici o la base repubblicana interverranno in qualche modo per porre freni alla brutalità del programma ideologico di sedicente risparmio. Al netto della retorica bellicosa, Musk alla fine non è mai andato davvero allo scontro finale con i giudici, sa bene che perderebbe, come è successo pure in Brasile, dove alla fine ha dovuto chinare il capo.
Ma il senso della brutalità del D.O.G.E. non è risparmiare denaro, ma domandare obbedienza assoluta, dissuadere dal desistere, mandare il messaggio che il vento è cambiato. Il senso del D.O.G.E. non è rendere più efficiente la macchina pubblica, compito che non si realizza con chiusure immediate e incentivi a pioggia per l’allontamento, incentivi che ovviamente favoriscono la fuoriuscita degli elementi migliori e più qualificati, persone che troverebbero sicuramente un lavoro fuori. E torniamo in laguna: il Doge di Venezia, che solo per un caso si chiama come lo Shiba Inu del meme a cui il dipartimento di Musk si ispira, era il capo di stato e il simbolo della Serenissima Repubblica, ma non era certo un sovrano assoluto. Era eletto a vita, ma il suo potere era fortemente limitato da un complesso sistema di istituzioni della Serenissima. Questi meccanismi di controllo servivano a evitare che il Doge potesse agire unilateralmente, unilateralmente come fa l’uomo più ricco del mondo Musk. In questo senso il D.O.G.E. di Musk e il Doge di Venezia sono figure antitetiche. Il Doge era un leader simbolico e a vita, ma dai potere reali molto limitati. Il D.O.G.E. di Musk si ammanta di efficienza e competenza tecnologica per dettare un potere assoluto e senza limite. Ma il nome del Doge di Venezia deriva dal latino Dux, condottiero, duce, una etimologia che, almeno a giudicare dalle amicizie politiche recenti e dagli inquietanti spasmi dell’avambraccio dell’imprenditore sudafricano, gli risulterebbe sicuramente gradita.
Il senso dell’acquisizione di Twitter prima e del D.O.G.E. adesso, acquisizioni avvenute seguendo lo stesso copione, è unicamente mandare un messaggio di obbedienza, spezzare le rotule di chi potrebbe ribellarsi ai nuovi padroni, portare un messaggio ideologico di “efficienza” veicolato da una incomprensibile coloritura tecnologica e morale. La sola cosa interessante, l’unica cosa non negativa nella tragedia, di un esperimento di questo tipo è che non si era mai visto una cosa del genere di questa scala in Occidente nei tempi recenti. A voler proprio cercare un silver lining nelle nuvole nerissime che si approssimano, per gli scienziati politici e sociali si tratta di una possibiiltà senza precedenti di trarre lezioni empiriche dalla gigantesca demolizione incontrollata dell’enorme burocrazia imperiale americana. La cosa più simile che mi viene in mente è quanto successo in Turchia dopo il golpe del 2015 contro Erdoğan. Cosa succederà? Cosa possiamo aspettarci? Chi sopravviverà a questa poco schumpeteriana “disruption” vedrà.
Trump vuole la Groenlandia, il Canale di Panama, il Canada e la Groenlandia. Ma in che modo è da prendere sul serio? Trump va preso completamente sul serio, e per nulla sul serio. Riprendendo la definizione dell’attuale assetto di potere come “ipnocrazia” fornita da Jianwei Xun, abbiamo i sacerdoti di nuove “narrazioni ipnotiche” che “modulano i desideri, riscrivono le aspettative, colonizzano l’inconscio“, attraverso una nuova forma di potere che “manipola la percezione, trasformando radicalmente il nostro rapporto con la realtà“.
Trump e Musk sono miliardari perché sono riusciti a farci sognare, non riescono a farci sognare perché sono miliardari. Moltissimi sono i miliardari privi di alcun rapporto con l’immaginazione collettiva. Il ruolo delle narrazioni, dei sogni e delle visioni è centrale in quello che fanno. Musk non è isolato in questo: molti fondatori di start up mettono al centro la “vision” e la “mission“. La realtà seguirà. Qualcosa arriva, qualcos’altro no, pazienza.
Le auto che si guidano da sole? E’ dal 2016 che sono a due anni di distanza da noi, poco importa che il primo video di allora fosse completamente finto. L’obiettivo è Marte, il filtro di Fermi, la “Fork on the Road”? Fork on the Road che non è solo una “opera d’arte” commissionata da Musk di abbacinante bruttezza, ma anche una email con cui – tramite incentivi a pioggia – si è tentato di azzoppare la macchina amministrativa americana (gli incentivi con buonuscita a pioggia fanno andare via i migliori, quelli che troverebbero lavoro subito fuori). Ma torniamo allo spazio: cosa respireremo su Marte, visto che non ha atmosfera? Dettagli, ci arriveremo. Intanto abbiamo i razzi riutilizzabili, bisogna guardare sempre la luna dietro, mai il dito che la indica. Sono imprenditori, dicono, la gente sceglie di dar loro i propri soldi. Ma è fondamentale capire che Musk e il pizzaiolo sotto casa sono solo nominalmente entrambi imprenditori, perché vendono cose molto diverse. Il pizzaiolo vende pizze, se non paga gli stipendi ai dipendenti, l’affitto al proprietario delle mura, l’energia del forno e le tasse chiude. Il suo prodotto è la ristorazione. Musk non ha venduto solo razzi riutilizzabili, auto elettriche e connettività satellitare: il vero prodotto di Musk è il FUTURO, un sogno appunto. Poco dopo il colloquio con Alice Weidel dell’ADF, Musk si è sentito in dovere di dire “e voglio andare su Marte”, mentre la candidata di estrema destra annuiva. Certamente vuoi andare su Marte, piccolo Elon, chi non vuole andare su Marte? Chi ti può ragionevolmente dire che non bisogna assolutamente andare su Marte? Che è male, haram, tabù, Verbot, andare su altri pianeti, che non avrà altri pianeta, che questa piccola, solitaria, laconica e striminzita “Blue Marble“? E’ l’equivalente geek della pace nel mondo per cui si sono ingiustamente ridicolizzate le aspiranti Miss Italia. Ma la pace del mondo è qualcosa di immensamente più nobile, elevato e persino plausibile di quello che ci rivende Musk. Onore a tutti coloro che l’hanno proposta da Kant alle concorrenti dei concorsi di bellezza.
La politica di Trump è molto simile, per questo lui e Musk si trovano bene assieme, sono colleghi nella rivendita ipnotica di sogni alle masse. Quando Trump dice “voglio il Canada”, non scherza, lo intende veramente, e fanno bene i canadesi a preoccuparsi. Vuole il Canada, sogna le sue risorse minerarie ed energetiche, l’accesso sconfinato all’Artico, ma soprattutto ha venduto questo sogno agli americani. Il sogno di una grande America maschia che si espande anche territorialmente, che diventa più grande e più forte, rispettata, il mito della frontiera. Trump va preso assolutamente sul serio quando dice che vuole il Canada, la Groenlandia, Panama e Gaza, ma al contempo non ha nessuna sorta di piano su come farlo: in questo senso non va assolutamente preso sul serio. Il piano in cui questi desideri si esplicano sono assolutamente onirici, ma onirici in senso politico. Trump non ha nessuno straccio di piano concreto: ha parlato di “51 stato americano”, ma non si capisce come un territorio canadese grande come tutti gli Stati Uniti dovrebbe diventare un unico stato aggiuntivo americano, esattamente come il Rhode Island, che è 3000 volte più piccolo del Canada. Il Canada ha 13 province, ed è anche amministrato in maniera federale o quasi: un piano sensato avrebbe incluso fare delle province canadesi 13 stati aggiuntivi americani, quindi “America a 63 stati”. Ma il Canada ha anche un problema linguistico, quasi 7 milioni di canadesi del Quebec sono francofoni, e sono gelosissimi della loro indipendenza. Che ne sarebbe di loro? Come prima mossa di governo Trump ha cancellato le pagine in spagnolo dal sito della Casa Bianca. Ricordiamo che ci sono in Texas e in New Mexico comunità che parlano spagnolo da secoli, senza dimenticare Puerto Rico (comunque cittadini americani). Sono oltre 43 milioni i cittadini americani che parlano spagnolo a casa, molti dei quali hanno supportato Trump e sono stati obliterati linguisticamente senza tanti complimenti in nome di un suprematismo in salsa WASP. Cosa accadrebbe ai francofoni canadesi? Inoltre il Canada è ancora una monarchia parlamentare. Il Capo dello stato Carlo III non avrebbe niente da dire? Come avverrebbe questa annessione? E quella della Groenlandia? E quella del Canale di Panama. Non se ne sa niente. Per questo Trump in una conferenza stampa ha risposto “no” alla domanda “può escludere l’uso della forza militare?”. Non può escludere nulla perché non ha nessun piano, non può escludere neppure l’intervento di Superman e di Godzilla, perché vorrebbe il Canada, ma come io in sogno vorrei avere i superpoteri. Non c’è nessuna considerazione morale in questo: gli stati fanno operazioni di influenza per portare altri stati all’annessione, o semplicemente sotto la propria orbita.
L’esempio russo con l’Ucraina è lampante: le operazioni di influenza sono andate avanti per anni prima di risolversi all’invasione, con gli effetti catastrofici che vediamo. Almeno Putin per prendere la vicina Ucraina aveva qualcosa che somigliava lontanamente a un piano, Trump per prendere il vicino Canada neppure quello, solo sogni. “Prenderemo Gaza, la ricostruiremo, sarà bellissimo, la popolazione palestinese fiorirà altrove“. Ammetti pure che dando 100mila dollari a testa riesci a convincere la grossa maggioranza della popolazione palestinese ad andarsene. Dove dovrebbero andare? Chi li prende? Cosa farai con quelli che non se ne vorranno andare? Li deporterai da dove sono nati? Li ucciderai? Questa roba non è un piano, non è niente. E’ un sogno. Come si interrompe una dittatura ipnotica? I sognatori che si muovono durante il proprio sogno sono chiamati sonnambuli. Si muovono seguendo la direzione dei propri sogni, ma a volte incontrano i duri ostacoli della vita vera, scale, letti, spigole, finestre aperte. Per questo il sonnambulismo può essere molto pericoloso. Al momento i sonnambuli si muovono senza incontrare ancora ostacoli. Prima o poi incontreranno qualche barriera sul loro percorso.
Scrive JP Morgan del titolo Tesla“What does seem clear is that the move higher in Tesla shares bore no relation whatsoever to the company’s financial performance in the quarter just completed or to its outlook for growth in the coming year.”. Ormai il titolo sembra vivere di vita propria, aumenta di valore senza un perché finanziariamente sensato (forse politicamente sensato). Le vendite delle automobili Tesla si dimezzano in Europa? Il titolo sale. Ci si gode la luna di miele dei dolci sogni, si dichiarano emergenze scavalcando tutti i controlli costituzionali.
La natura ipnocratica della Presidenza Trump è sottolineata dalle infinite contraddizioni nei suoi obiettivi programmatici. Contraddizioni che non sono un “bug”, un errore, ma proprio una loro caratteristica. Trump può promettere che si riappacificherà con la Russia, ma al contempo che gli europei non compreranno nemmeno una soffio di gas russo, tutto e solo LNG americano. La Danimarca cederà felice la Groenlandia, e al contempo continuerà a comprare gli F35. I paesi del mondo dovranno riequilibrare la bilancia commerciale americana, acquistando beni e prodotti che l’America isolazionista nemmeno più produce o ha piani per riprendere di costruire, e al contempo “nemmeno sognarsi di mettersi in dubbio la supremazia mondiale del dollaro“. Gli alleati dovranno accettare l’egemonia americana, mentre versano il 5% del PIL per la propria protezione, una cifra più che doppia rispetto a quella che spende la stessa America. Trump promette non solo la botte piena e la moglie ubriaca, ma anche tre amanti tutte ubriache, senza che nemmeno una goccia di vino manchi alla botte. Tutto questo con una comprensione dei meccanismi economici e commerciali del mondo a un livello inferiore a quello del primo anno di ragioneria. Trump ignora la quantità mostruosa di prodotti e servizi software e finanziari il suo paese venda nel mondo, spesso eludendo le tasse (anzi, guai a volerle far pagare). Trump ignora quanti di quei prodotti esportati e importati siano stati prodotti per conto di aziende americane, persino quanti di essi siano stessi prodotti da aziende straniere possedute da fondi americani. Per anni l’economia a stelle e strisce ha potuto stampare praticamente tutti i soldi che voleva, e il mondo li ha accettati: poverini, che afflizione, che sacrificio!
Risulta del tutto evidente che stiamo parlando di una dimensione puramente onirica, della quale al nostro risveglio ricorderemo quello che ci pare, o quello che Trump vorrà farci ricordare. Prima o poi però la realtà irrompe nella vita dell’ipnocrate. Il risveglio in questi casi può essere più o meno duro, ma arriva. Se non arriva, è perché il sognatore era già in coma.
Ieri ho visto il film “Il Verdetto — The Children Act”, basato su un libro di Ian McEwan che purtroppo non ho letto. Il mio commento e i relativi spoiler che vi invito ad evitare non possono quindi che riferirsi esclusivamente alla trasposizione cinematografica, e potrebbero sempre essere smentiti da una successiva lettura del testo originale. SPOILER WARNING
Il giudice Fiona Maye e suo marito Jack sono l’espressione migliore della cultura umanista e illuminista occidentale. Non dico “britannica”, perché a prescindere dalle parrucche, dagli ermellini e dai rosoni neogotici delle Royal Courts of Justice di Londra la storia potrebbe svolgersi in qualsiasi altro paese occidentale.
Fiona (Emma Thompson) è un giudice estremamente abile, competente e professionale, è molto devota alla propria professione e si occupa per lo più in questioni bioetiche o di diritto di famiglia. Il primo caso in cui la vediamo impegnata è l’autorizzazione richiesta da un ospedale a separare due gemelli siamesi Bisogna ucciderne uno per salvare l’altro contro il volere dei genitori. L’autorizzazione viene ovviamente concessa: la ragione occidentale sa far i conti e sa senza nessun dubbio che un morto solo è meglio di due morti.
Il marito di Fiona, Jack (Stanley Tucci), è un docente universitario di lettere classiche, un uomo che conosce a memoria Tucidide e Marco Aurelio. Fiona e Jack abitano in un appartamento meraviglioso, pieno di libri, nel centro di Londra. Jack e Fiona sono perfettamente inseriti al vertice della società britannica, in una situazione socioeconomica stellare che molti giovani laureati in legge e lettere potrebbero solo sognare. Al centro dell’appartamento un meraviglioso pianoforte a coda Fazioli: se ne producono cento pezzi all’anno e Fiona lo suona divinamente, da professionista.
Questo per dire che la cultura umanista non può avere cristallo più puro e perfetto di questa coppia. Jack ama Fiona e probabilmente viceversa, ma lei è talmente inghiottita dal suo mestiere, la somministrazione della ragione umanista, che si è dimenticata di dimostrare qualsiasi interesse verso il marito. Non hanno avuto nemmeno figli perché — ci viene detto più tardi — Fiona era troppo presa dal suo lavoro, e poi era troppo tardi, e così via. Il marito le dice chiaramente che ha intenzione di iniziare una relazione extraconiugale con un’altra donna verso la quale — è evidente — non prova il minimo interesse. Il suo unico obiettivo è ridestare Fiona, che non ricorda più nemmeno l’ultima volta che hanno fatto l’amore
Contestualmente un ragazzo minorenne malato di leucemia rifiuta le trasfusioni di sangue necessarie a salvargli la vita in nome della sua fede (è un Testimone di Geova). Con una decisione irrituale il giudice va a incontrare il ragazzo, canta con lui alcuni versi di una poesia di Yeats: lo risveglia insomma alla vita, vita che poi gli impone con la sentenza che dispone le trasfusioni. E la vita fluisce davvero nelle vene del ragazzo riempiendolo di entusiasmo, di gioia di vivere. A quel punto però, il dramma. Il ragazzo si è innamorato del giudice Maye, della sua cultura, dell’umanesimo da lei incarnato, ma Fiona è troppo perfetta nella sua esecuzione per sbracare, per concedersi per mostrarsi davvero umana: l’umanità riesce a filtrare solo attraverso le rarissime crepe di una esecuzione altrimenti perfetta. Il marito nel frattempo torna a casa, ancora evidentemente innamorato di lei, ma neppure con lui riesce a riavviare il dialogo. Il ragazzo nel frattempo, respinto dalla perfezione di Fiona nei suoi ardori così ebbri e stupidi eppure così belli e poetici, si riammala nuovamente. Nel frattempo però è maggiorenne e decide -stavolta con la sua testa e non con quella dei suoi genitori — di rifiutare le trasfusioni e morire. “Perché?”, piange Fiona. “Perché no?”, risponde lui.
Va in scena in questo film il dramma delle élites occidentali: pronte difendere fino allo stremo alcuni valori non negoziabili, di fondo gli stessi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, avendo però dimenticato il loro autentico significato. “We hold these truths to be self-evident” scriveva Thomas Jefferson, si ma poi cosa c’è? Oltre le dichiarazioni nobili ma spesso retoriche noi che vogliamo salvare la vita ci siamo mai chiesti quale vita? Noi imbevuti di cultura umanista e che abbiamo distillato l’umanesimo e l’illuminismo nelle leggi moderne, espressione più avanzata e perfetta di questi principi cos’altro abbiamo in mano? Uscendo dalla celluloide di questo film noi che chiediamo con i cartelloni di sbarcare i migranti della Diciotti, della Sea Watch e domani di qualche nuova imbarcazione, ci siamo posti il problema di cosa avverrà dopo lo sbarco? Dopo il dovuto atto di giustizia che difende alcuni principi inoppugnabili (“non si tengono donne e bambini su una nave”, “questa gente ha diritto all protezione umanitaria”) cosa viene? Cosa abita dentro i nostri gusci?
Una cultura umanista e illuminista che difenda solo la lettera dei leggi, la rendita di posizione legislativa maturata in un periodo particolarmente felice della storia umana durante il quale queste ragioni trovavano facilmente spazio in costituzioni e trattati internazionali è fallimentare se dimentica lo spirito delle leggi, la bellezza che questi leggi avevano il compito supremo di difendere. Far sbarcare degli essere umani senza preoccuparsi di cosa sarà di loro dopo i flash dei fotografi sulla passerelle del porto è poco più umano che non farli sbarcare affatto. Affermare il diritto a tutte le cose incredibili che l’ampollosa costituzione italiana dovrebbe garantirci senza però fornire i meccanismi e le risorse necessarie per la loro implementazione non è idealista, è semplicemente ipocrita. Il manifesto di Ventotene dovrebbe essere l’atto d’accusa e non la foglia di fico di una Unione Europea nella quale i meccanismi democratici sembrano quanto meno opachi. Un’affermazione ideale senza la sua messa in pratica non è solo l’assenza di quell’ideale, ma il suo tradimento completo.
L’Umanesimo senza umanità rischia di chiudersi come si chiude il film “Il Verdetto”, con Emma Thompson e Stanley Tucci che assistono da lontano a un funerale, il funerale straziante di un meraviglioso ragazzo pieno di promesse.
Il fatto che così tanti imperi siano caduti e che così tanti centri nevralgici siano poi diventati sonnolenta periferia non ci aiuta a cogliere il ripetersi ciclico degli stessi fenomeni, nemmeno quando accadono davanti ai nostri stessi occhi. La potenza hegeliana della storia a volte è così incandescente da accecare i propri protagonisti.
Mi si dirà che la Brexit non è la fine del mondo, e soprattutto l’Unione Europea, con tutti i guai che ha, non è certo il compimento della Storia. Uscire da questo minuzioso consesso burocratico non può poi avere conseguenze tanto nefaste, giusto?
Forse sì invece. Il modello di sviluppo della piccola grande isola al di là della Manica ha avuto diverse fasi, fase coloniale, fase commerciale, fase industriale, fase finanziaria, ma ha sempre avuto un comune denominatore: essere al centro di un’economia dei flussi, essere l’hub principale delle varie reti. I flussi e le reti seguono la legge di Metcalfe da ben prima che l’informatico americano la formulasse in questi termini “L’utilità e il valore di una rete sono proporzionali al quadrato del numero degli utenti”, ovvero con n il numero degli utenti: n(n−1) = n²−n. Notare quell’esponente: una funzione quadratica NON è lineare, la sua traiettoria non la “percepiamo” naturale.
Ora il Regno Unito ha deciso di scendere dalla giostra che più di tutti ha spinto per mettere in moto. La globalizzazione, essere sempre con una scarpa dentro flussi, reti, relazioni, sempre pronti a cogliere vantaggi e a bloccare pericoli, fino a spingere il mondo intero verso l’attuale parossismo di reti e relazioni frenetiche, attraverso tutti i fusi orari possibili immaginabili, fino a connettere tutti con tutti, sempre, in ogni luogo, in ogni lago, fino a spingerci alla domanda esiziale di Corrado Guzzanti:
“Ma io e te aborigeno ma che cazzo se dovemo di’???”.
Ma ora la giostra è in moto frenetico, mantiene ostinata il proprio vorticoso momento angolare, e non si può scendere così facilmente a comando, senza essere tranciati da tutto ciò che si è messo in moto. Anzi, non è neppure etico uscirne indenni, senza graffi, facendo pagare ad altri il prezzo del biglietto della giostra mentre si va in giro con una stecca di zucchero filato in cerca delle nuove attrazioni nel Luna Park.
Il recente prestigio del Regno Unito era basato sui vantaggi della globalizzazione, essere la patria di riferimento del suo modello di capitalismo e il prestigio culturale della propria lingua, diventata lingua franca di un mondo iperconnesso.
Tuttavia, se il primo vantaggio verrà ridimensionato dall’uscita parziale dai flussi, e la Teoria dei Giochi ci insegna che agenti razionali vanno sempre dove hanno 101 anziché 100, e quindi chi offre 100 viene scartato esattamente come chi offriva zero, nemmeno il secondo punto di forza se la passa più tanta bene. Generazioni di giovani di belle speranze potrebbero non trovare più a Londra la migliore scuola di lingua: perché mai dovrebbero sciacquare i piatti a Londra se tramite Netflix o Youtube possono avere quasi gratis tutta l’esposizione alla lingua originale di cui hanno bisogno? La lingua inglese è già ovunque, non bisogna andare per forza oltremanica ad abbeverarsene.
Inoltre, il livello medio dell’inglese nel mondo è aumentato moltissimo. I giovani tedeschi e svizzeri parlano un inglese già quasi perfetto, e persino in paesi recalcitranti come Francia e Italia il livello è molto migliorato di recente.
E allora, cosa c’entra Vienna? Vienna resta una delle città più belle d’Europa, ma la sua bellezza fu costruita per celebrare i fasti della capitale di un impero immenso, poliglotta e multietnico. Quando il suo impero fu inghiottito dall’unica vittoria militare della storia italiana (vittoria che si sarebbe ovviamente tradotta con la scellerata estinzione di uno dei fari di cultura e tolleranza della civiltà europea), Vienna si ritrovo ad essere la capitale troppo grande di un corpo troppo piccolo e si rinchiuse nei piccoli piacere dei suoi caffè, animati da intellettuali già con la valigia pronta per sfuggire alla nuova marea nera.
Londra rischia di trovarsi ad essere una Vienna con i bus a due piani. Una città schiava del mito della propria storia, troppo immedesimata nel proprio ruolo per reinventarsi di colpo e soprattutto non abbastanza umile per farlo. Londra rischia di diventare per gli anni a venire un luogo dove si va a vedere il cambio della guardia davanti a Buckingham Palace e ci si fa un selfie con i Beefeaters. Gioverebbe ricordare che anche Roma, capitale dell’Impero millenario che inventò l’occidente e la cristianità, è ormai ridotta a poco più di uno sfondo per i selfie con i centuroni obesi, le spazzole della scopa montati sugli elmi di plastica.
Sono molte le lezioni che possiamo trarre dalla Storia: la principale a mio avviso dovrebbe sempre essere l’umiltà.
Di tutte le umane botteghe che possono chiudere, nessuna mi strazia di più delle panetterie. Un monumento vivente di tradizione e semplicità, il miracolo millenario della transustanziazione dei cereali in massa calda, fumante,deliziosa, le mille pieghe della crosta del pane, il brunire delle corna dei cornetti, il miracolo del loro ripieno, le mille impensabili sensazioni che al palato solo l’abbraccio del burro, del lievito e dell’olio possono dare. Come è buono, come è sostenibile tutto questo. Non sapremo mai se sia stato davvero l’uomo ad addomesticare il grano o piuttosto il grano ad addomesticare l’uomo, a fare di questa scimmia errante il più fedele dei servitori. Non ha importanza, la nostra civiltà nasce nel grano e nei suoi prodotti. E’ il miracolo del pane ripetuto quotidianamente, la fatica quotidiana del panettiere che a dispetto della globalizzazione, della delocalizzazione, dei cargo in mezzo agli oceani si alza a orari impossibili di tutte le latitudini, di tutti i paesi e con le sue mani ripete la più importante delle liturgie, fottendosene dell’indice di Gini, delle supply chain globali, dei bitcoin, dei talent show di cucina: lui fa Il pane, signori! Potete anche guadagnare dieci volte quello che guadagna lui, ma il vostro lavoro non varrà mai un decimo del suo. Il pane: in ogni luogo diverso, in ogni luogo delizioso, ovunque simbolo di una comunità che si fonda spezzando il pane, i nostri compagni (cum + panis: coloro con cui dividiamo il pane). Chi rifiuta questo miracolo, per una immonda caccia alle streghe del carboidrato meriterebbe di essere espulso a calci dal corpo sano della società, e lasciato su uno scoglio con una cassa di ignobili barrette proteiche, con il solo conforto di un velenoso bibitone alla soia. La chiesa cattolica che come sempre ha capito tutto troppo in anticipo, ha fatto del pane non una metafora, ma l’autentica vita nel suo cristallo più puro, il corpo fisico del Signore, non immagine ma presenza di Dio. Come è semplice e delizioso, come è economico e conveniente, quanto bene ci sazia tutto questo! Spezzare il pane: fondare una comunità. Il fallimento di una panetteria è la più mortale delle nostre sconfitte. La nostra civiltà nasce nel grano e nei suoi prodotti, e in essi muore. Che bestemmia contro il lavoro del panettiere, il più nobile dei mestieri, quella serranda chiusa per sempre! Finché c’è pane tutti noi anche se morti abbiamo ancora la speranza di tornare alla vita. Senza il pane c’è solo la morte, o peggio ancora la sua attesa.
Francia e Italia: può mai esserci rivalità tra dissimili? Verso gli eschimesi e gli zulu possiamo provare al massimo una esotica curiosità, oppure una totale indifferenza. Niente come il nostro simile attira le invidie e i litigi. Cugini d’oltralpe? Più che altro fratelli, o fratellastri. L’Italia come stato moderno è fondamentalmente una brutta copia della Francia. E’ sufficiente una passeggiata superficiale nel centro di una città francese per capire quanto l’Italia e la Francia si somiglino. Ecco l’infinita provincia, i pochi centri nevralgici, la distesa di motorini parcheggiati, il potente sindacato, i palazzi del potere, i notai imbellettati, le prefetture, la gendarmeria… ah, no è un carabiniere: sta guardando il cellulare. Persino il tricolore: si, abbiamo cambiato un colore, ma il verde si sa, da serenità, placa i bollenti spiriti latini. Latini come la lingua, che condividiamo, gli intellettuali che si influenzano a vicenda, il sorriso beffardo della Gioconda. Senza la Francia saremmo rimasti una espressione geografica. Prima l’illustre espatriato Napoleone I ha carezzato i nostri desideri patriottici, poi Napoleone III ha permesso al piccolo Regno di Piemonte di sconfiggere la sconfinata Austria. Il piccolo regno di Piemonte, i Savoia, dinastia francese, con quel piccolo pezzo di Francia che è Torino che si è gonfiato con la prosopopea della rana, fino a fagocitare malamente il resto della patria, modellando le nascenti istituzioni su quelle solide della propria patria ancestrale. Le centinaia di formaggi, le migliaia di vini, la passione spudorata per le belle donne, il ruolo degli intellettuali. Decenni prima che la cultura anglosassone esercitasse una qualsiasi attrazione, era Parigi il nostro riferimento indiscusso. L’italiano è un francese di buon umore, si diceva una volta. E oggi? Oggi non siamo di buon umore. La Francia è un’Italia di successo, una Italia seria, capace di non rendersi ridicola, di gestire efficientemente il proprio peso nel mondo. La Francia è un’Italia che non fa i nostri autogol. Il senso di inferiorità, malamente contenuto, sin dagli esordi. Milioni di Francesi con cognomi italiani, milioni: l’Italia che vorrebbe essere rispettata, ci prendono la Tunisia, noi ci alleiamo alla triplice alleanza. L’Italia vuole essere rispettata: Mussolini invade la Francia, storia nera e vigliacca di una mosca cocchiera di migliaia di cadaveri. L’Italia vuole rispetto, c’è la Libia, lasciateci la LIBIA cazzo, LASCIATECI LA LIBIA AVETE TUTTA L’AFRICA CAZZO. I Francesi non ci riescono, un po’ perché la Libia non è mai stata davvero nostra, un po’ perché non pensano che ci meritiamo una qualsiasi sfera d’influenza. La condiscendenza, il senso di superiorità: d’altronde loro hanno avuto Lilian Thuram, noi Mario Balotelli.
Ho comprato un libro a Lione. Yannick Haenel, Je cherche l’Italie, edizioni Gallimard. Non l’ho ancora letto. Il libro migliore di Modiano si chiama Rues des Boutiques Obscures, ma il n’y a pas des Boutiques Obscures à Paris, sono le stesse Botteghe Oscure di Roma. “Il n’y a pas d’amour heureux”, cantava Brassens, la cui mamma era originaria della Basilicata. Brassens somiglia un po’ infatti di viso a Rocco Papaleo, ma vi do un milione di Rocchi Papaleo per una sola unghia di Georges Brassens. Certo, noi abbiamo avuto Fabrizio De Andrè, ma era un imitatore di Brassens, senza la sua leggerezza, pesante, come un discorso che vuole ad essere a tutti i costi intelligente, compreso questo.
I francesi non hanno mai odiato gli italiani, perché non ci hanno mai percepito al loro livello, e hanno ragione: non lo siamo mai stati. Ora meno che mai.
Usiamo Massimo Cacciari per farci due risate miserabili sentendolo parlare dell’Antigone (sbrocca in tv, ah ah, che buffo) e Lino Banfi per rappresentare la cultura italiana nel mondo (non sono plurilaureeto, non mi chiamo fifì). E quel coglione lo chiama “Maestro”, senza alcuna ombra di ironia, perché questi sono i maestri che ci meritiamo, gli unici che riconosciamo. Maestro: dovrebbe indicare rispetto, distanza. Quale parola è mai stata più bella di “Maestro”? Ora per essere chiamato così basta aver spiato Edwige Fenech dal buco della serratura. A furia di intitolare film “Vieni avanti cretino” ne sono venuti avanti 60 milioni. Allenatori nel pallone, che nel pallone hanno mandato tutto la squadra, tutta lo stadio e soprattutto il tipo che vendeva le bibite tra gli spalti. Persino lui si è convinto di avere una qualità incredibile, che lo rendeva unico: una mediocrità stellare, visibile ad occhio nudo sin dai Bastioni di Orione. Alieni intelligenti potrebbero usarla per localizzare il nostro pianeta e invaderci dallo spazio, se non fosse che – essendo intelligenti – preferiscono mantenere anni luci di distanza da una specie così stupida.
Italiani, non c’è buca abbastanza profonda per sotterrarci di vergogna. La patria è sopravvissuta ai carri Tigre dei nazifascisti, ed è invece morta di colpo per via di questa meningite fulminante di idiozia. Togliete gli specchi dalle vostre case, dimenticavi del vostro viso, della vostra forma, lasciate che l’oblio inghiotta i nostri lineamenti, dissolvetevi nelle palude della storia: sparite, spariamo tutti per sempre. Servirebbe una legge sul fine vita nazionale per permettere alla nostra dignità di cessare di soffrire. Non l’abbiamo: preghiamo solo che l’irreversibile agonia finisca presto. Staccate la spina.
Per noi cresciuti nel paese dei fichi secchi lo spettacolo di impreparazione e confusione totale che sta offrendo la classe dirigente britannica è la consolazione più grande che la vita ci possa offrire. Per anni abbiamo sbavato davanti al 10 di Downing Street, sognato della Common Law,ammirato i ministri preparatissimi, istruiti nei più esclusivi e antichi college d‘Albione, paragonato i Churchill agli Scilipoti e poi ci troviamo davanti questa genia di peracottari e cioccolatai, zampognari scappati dal presepe, gente che probabilmente non sa manco più come si chiama, che cazzo sta facendo e perché. Con il governo di Theresa May non ci si potrebbe fare nemmeno il remake di “Scemo e più scemo” perché non si saprebbe a chi assegnare il ruolo del più scemo, tanto intensa sarebbe la concorrenza per la parte.
Per noi dicevo è la consolazione e la speranza più grande, non perché si auguri il male ai nostri amici d’oltremanica, ai quali invece va tutta la nostra vicinanza e la speranza che escano presto da questo stato di psicoalterazione nazionale. La consolazione è il fatto che dopo esserci scartavetrati i testicoli a vicenda con le analisi più colte possibili sui nostri guai ( Il Gattopardo, il Familismo amorale, il papa a Roma, Christian De Sica! ) e i loro successi (Cromwell, le Regine Elisabette, il protestantesimo, DAVID BOWIE) esce invece fuori che a volte ti capita nei posti di potere una muta di dementi tale che sospetti che li abbiano radunati insieme solo per far sembrare geniale chiunque altro. La speranza è che cosi‘ come agli inglesi è toccato per una volta in via eccezionale un governo di mentecatti, possa un giorno a noi toccare – in via altrettanto eccezionale – un governo di persone intelligenti. Legge dei grandi numeri, facci sta grazia!