Francofobia

Francia e Italia: può mai esserci rivalità tra dissimili? Verso gli eschimesi e gli zulu possiamo provare al massimo una esotica curiosità, oppure una totale indifferenza. Niente come il nostro simile attira le invidie e i litigi. 
Cugini d’oltralpe? Più che altro fratelli, o fratellastri. L’Italia come stato moderno è fondamentalmente una brutta copia della Francia. E’ sufficiente una passeggiata superficiale nel centro di una città francese per capire quanto l’Italia e la Francia si somiglino. Ecco l’infinita provincia, i pochi centri nevralgici, la distesa di motorini parcheggiati, il potente sindacato, i palazzi del potere, i notai imbellettati, le prefetture, la gendarmeria… ah, no è un carabiniere: sta guardando il cellulare. Persino il tricolore: si, abbiamo cambiato un colore, ma il verde si sa, da serenità, placa i bollenti spiriti latini. Latini come la lingua, che condividiamo, gli intellettuali che si influenzano a vicenda, il sorriso beffardo della Gioconda. Senza la Francia saremmo rimasti una espressione geografica. Prima l’illustre espatriato Napoleone I ha carezzato i nostri desideri patriottici, poi Napoleone III ha permesso al piccolo Regno di Piemonte di sconfiggere la sconfinata Austria. Il piccolo regno di Piemonte, i Savoia, dinastia francese, con quel piccolo pezzo di Francia che è Torino che si è gonfiato con la prosopopea della rana, fino a fagocitare malamente il resto della patria, modellando le nascenti istituzioni su quelle solide della propria patria ancestrale. Le centinaia di formaggi, le migliaia di vini, la passione spudorata per le belle donne, il ruolo degli intellettuali. Decenni prima che la cultura anglosassone esercitasse una qualsiasi attrazione, era Parigi il nostro riferimento indiscusso. L’italiano è un francese di buon umore, si diceva una volta. E oggi? Oggi non siamo di buon umore. La Francia è un’Italia di successo, una Italia seria, capace di non rendersi ridicola, di gestire efficientemente il proprio peso nel mondo. La Francia è un’Italia che non fa i nostri autogol. Il senso di inferiorità, malamente contenuto, sin dagli esordi. Milioni di Francesi con cognomi italiani, milioni: l’Italia che vorrebbe essere rispettata, ci prendono la Tunisia, noi ci alleiamo alla triplice alleanza. L’Italia vuole essere rispettata: Mussolini invade la Francia, storia nera e vigliacca di una mosca cocchiera di migliaia di cadaveri. L’Italia vuole rispetto, c’è la Libia, lasciateci la LIBIA cazzo, LASCIATECI LA LIBIA AVETE TUTTA L’AFRICA CAZZO. I Francesi non ci riescono, un po’ perché la Libia non è mai stata davvero nostra, un po’ perché non pensano che ci meritiamo una qualsiasi sfera d’influenza. 
La condiscendenza, il senso di superiorità: d’altronde loro hanno avuto Lilian Thuram, noi Mario Balotelli. 

Ho comprato un libro a Lione. Yannick Haenel, Je cherche l’Italie, edizioni Gallimard. Non l’ho ancora letto. Il libro migliore di Modiano si chiama Rues des Boutiques Obscures, ma il n’y a pas des Boutiques Obscures à Paris, sono le stesse Botteghe Oscure di Roma. “Il n’y a pas d’amour heureux”, cantava Brassens, la cui mamma era originaria della Basilicata. Brassens somiglia un po’ infatti di viso a Rocco Papaleo, ma vi do un milione di Rocchi Papaleo per una sola unghia di Georges Brassens. Certo, noi abbiamo avuto Fabrizio De Andrè, ma era un imitatore di Brassens, senza la sua leggerezza, pesante, come un discorso che vuole ad essere a tutti i costi intelligente, compreso questo. 

I francesi non hanno mai odiato gli italiani, perché non ci hanno mai percepito al loro livello, e hanno ragione: non lo siamo mai stati. Ora meno che mai.

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